Sunday, August 26, 2007

Sudan e la fotografia

Per chi ama fotografare come me il Sudan non è certo il paese ideale. Qui per loro i fotografi sono delle spie che cercano o di copiare la “rinomata” abilità sudanese di costruire ponti e palazzi o sono giornalisti che cercano dei soggetti da fotografare per mostrare al mondo intero quanto il paese sia malvagio. Forse se la smettessero di perseguitare i turisti che cercano solo di immortalare il diverso e portare a casa qualche ricordo da mostrare agli amici, non si leggerebbero tante brutte cose sul paese e l’industria turistica del paese ne trarrebbe enormi benefici.
In poco meno di due mesi passati qui in Sudan sono già riuscita a farmi arrestare. Cosa ho fatto? Ho solo fatto una foto per la quale, per di più, avevo chiesto il permesso al soggetto della mia fotografia. Si trattava forse di luoghi strategici o di personaggi illustri? No, si trattava di una foto ad una signora che preparava il caffe in un “bancariello” in mezzo alla strada.

Esiste un permesso fotografico, facile da ottenere (o almeno cosi’ dicono) che dovrebbe autorizzare il turista a fare foto (non di tutto pero’ !), ma in realta’ a volte serve a poco.

Finalmente da poco sembra esserci la cosiddetta « tourist police » di cui pero’ nessuno sembra aver il numero e che non e’ pubblicizzata da nessuna parte e di cui in due mesi di permanenza qui non ho mai visto una sola pattuglia.
La polizia turistica ha il compito di tutelare i turisti e non solo da ladri e criminali ma dalla polizia stessa che spesso abusa dei turisti tentando di estorcere soldi e sequestrare macchine fotografiche.

La concezione sudanese del tempo

Sono successe tante cose dall’ultima volta che ho scritto che non so da dove cominciare. Avrei dovuto scrivere le mie impressioni man mano che le cose accadevano, ma presa dalla frenesia di fare ho rimandato di giorno in giorno... In fondo si potrebbe dire che incomincio a entrare nella cultura sudanese, dato che loro dicono sempre “bukra bukra”, che significa dom anche se poi magari rimandano anche quello che non potrebbero rimandare.
ani... Credo infatti che uno dei loro motti sia “non fare oggi cio’ che puoi rimandare a domani”Una delle loro filosofie è che nulla accade se non è Dio a volerlo. Ogni volta che ti danno un appuntamento o promettono di fare qualcosa aggiungono sempre alla fine della frase: “inshalla”, che significa “se Dio vuole”. Cosa che in se idealmente mi sembra anche carina e giusta: come si fa a promettere che ci si vedrà domani se non si può essere sicuri che domani saremo ancora su questa terra? Allo stesso tempo credo però che loro lo usino un po’ come una scusa, e così un “ci vediamo domani alle quattro inscialla” garantisce loro protezione nel caso in cui (e nel 99% dei casi è così) si presenteranno una o due ore dopo.
E loro applicano questa teoria a tutto: appuntamenti con amici e di lavoro.
Qui alcuni sudanesi che hanno vissuto all’estero o stranieri appartenenti a compagnie internazionali che cercano di far applicare i loro standard di lavoro anche in questo paese cercano di cambiare le cose organizzando seminari sul “time managment” ai quali i partecipanti arrivano puntualmente tardi.
Un sudanese un giorno mi ha raccontato questo detto locale “Ti dico ci vediamo alle quattro. Se alle quattro non arrivo aspettami fino alle cinque. Se per le cinque non sono arrivato allora chiamami. E se per le sei non sono ancor lì vai a casa, ci vediamo domani”.